Recensioni sull'artista Franco Beraldo

    Un moderno pellegrino

    di Marco Goldin

     Ormai senza più peso, allontanata e liberata da qualsiasi vincolo terrestre, sciolta in un vasto cielo che tutto avvolge ed entro sé comprende: è questa la realtà di Franco Beraldo, quella stessa che egli viene evocando nelle sue tele e nei suoi affreschi, che sono un canto infinito di un’altrettanto infinita nostalgia che si sostanzia di sogni continui, come nei versi ungarettiani che così bene si accordano:

    Ho sognato

    stanotte

    una

    piana

    striata

    d’una

    freschezza

    In veli

    varianti

    d’azzurr’oro

    alga

    E tutta la pittura di Beraldo è, in effetti, la registrazione di un lungo cammino su un grande pianoro azzurro, in un’aria di abbacinato e perenne mezzogiorno, dove tutto si rapprende in una sorta di eternità senza tempo. E quando forzatamente si deve interrompere il cammino, perché la terra brucia ed il sole incalza, ecco che il pittore sceglie di ripararsi un momento, e di scrivere, con il privilegio della distanza, una storia di solitudini e di silenzi, di paesaggio abbandonati, nei quali l’uomo a fatica potrebbe entrare. Par quasi che il privilegio del pittore sia quello di raccontare quanto, in realtà, andrebbe dimenticato, e dimenticato perché mai conosciuto.

    E questa dimensione quasi oracolare dell’arte di Franco Beraldo va ad unirsi a quella cadenza magica che sempre si riflette dalle sue tele, dai suoi affreschi. Viene da pensare che entro questi luoghi mediterranei, dentro e al di là di questi cieli incombenti, via sia spazio solo per pochi e segreti abitanti, e che la terra si sia trasferita altrove. Il mondo di Franco Beraldo è attraversato da un raggio di luce pura, non contaminata mai dalla ferialità degli eventi. Anzi, quella di Beraldo è una quotidianità mitica, bloccata una volta per sempre e non assolutamente mutabile.

    Allora forse nemmeno il tempo esiste più, o non è mai esistito, se, come scrisse Lucrezio, “il tempo non esiste per sé, ma dagli eventi trae senso passato presente futuro. Nessuno lo sente sottratto al moto degli oggetti e alla loro tranquilla quiete”. Beraldo ha creato un suo universo che si origina da una realtà che è assoluta prima ancora di poterne avere le sembianze. Il dato oggettivo, quel fascinoso e integrante motivo delle coste mediterranee, è il punto di partenza per un’avventura che si sviluppa poi in un personalismo lungo mentale, che, senza sosta, occhieggia alla felicità del paesaggio, tuttavia mantenendo sempre, e per definizione quasi, una nota di lancinante e dolorosa purezza.

    Ed è proprio in questo che risentiamo le radici neo-quattrocentesche della pittura di Beraldo, che avvicina nella ricostruzione formale dell’immagine, nella scansione aritmicamente cadenzata delle lunghe strade assolate digradanti verso il mare, quelle stesse stradine che sembrano uno scabroso itinerario montaliano. Ma sono poi, e più ancora, le finestre aperte sulle case lontane solitarie, i davanzali con le fruttiere ad indicarci come tutto un patrimonio di silenzi immemorabili abbia sedimentato in modo esemplare.

    Non è un caso, infatti, che dal quattrocentismo pierfrancescano, secondo l’esatta indicazione critica di Paolo Rizzi, si passi ad una sorta di neo-metafisica, che non ha, però, la cristallizzazione assoluta dechirichiana, e che trova invece una mediazione possibile nelle distese vedute lagunari di Virgilio Guidi. Entro questi segnale intensissimo, Beraldo colloca la sua disposizione ad accogliere le atmosfere della pittura novecentista, in special modo di Giorgio Morandi, che è presente come un nume tutelare in molte delle sequenze di questo viaggio ininterrotto. Ed è allora proprio qui che scatta la sua originalità, nel frantumare lo schema di questa pittura colta per inserirvi, invece, una nota di toccante nostalgia che si accende vieppiù il sogno delle distanze.


    Franco Beraldo - Verso l’immediato

    di Dino Marangon

     Da tempo ormai i dipinti di Franco Beraldo vanno incontrando un sempre crescente successo, un favore sempre più ampio che travalica la cerchia degli addetti ai lavori per attingere a un gradimento davvero popolare.

    La sua opera vanta altresì una vasta letteratura critica che ha variamente messo in luce soprattutto la raffinatezza esecutiva e le qualità liriche delle sue opere.

    Credo tuttavia che proprio a partire dalla ricerca delle ragioni di tale accoglienza sia forse possibile tentare di formulare ulteriori ipotesi interpretative.

    Non va, ad esempio, dimenticato che la pittura di Beraldo nasce e si sviluppa negli anni che seguono il pressoché universale trionfo della Pop Art che prelevava e riproponeva incisive ed emblematiche immagini tratte prevalentemente dal mondo dei mass media, delle nuove e sempre più diffuse tecnologie, della pubblicità e dell’informazione.

    E’ questo uno dei più significativi segnali di un radicale cambiamento nel modo di essere delle cose e delle persone, sintomo evidente che la stessa percezione del reale non è più diretta, ma passa ormai attraverso sempre nuove intromissioni, nuove mediazioni.

    “Per quanto possano esistere”, ancora “gli interni, le nature morte, le figure”, ha scritto recentemente Walter Guadagnini, nel riconsiderare le variegate esperienze della Pop Art italiana, “tale modo di affrontare il fare pittorico”, dopo essere stato in larga misura “… messo in mora dalle avanguardie storiche”, ha subito una definitiva trasformazione a partire dai primi anni Sessanta: anche se, ad esempio, “… una pittura di paesaggio continua ad esistere”, in realtà il tema non è più semplicemente il paesaggio, ma “… la percezione di esso nella contemporaneità, la sua stessa definibilità a confronto con una crescente presenza dell’uomo” e, in particolare, “dei suoi artifici al suo interno”, cosicché accade che “… il paesaggio oggi è visto sempre attraverso un filtro: non solo un filtro intellettuale , ma un autentico filtro tecnologico, quello della macchina fotografica …”, ne consegue, conclude Guadagnini che “…il paesaggio è, a seconda dei casi e delle volontà”, sempre “o inquadrato o riprodotto.”

    “Inquadratura, schermo, fotografia, cinema”, diventano allora i termini fondamentali del nuovo linguaggio rappresentativo, mentre la concezione del paesaggio quale “… specchio dell’animo umano”, appare definitivamente accantonata.

    La natura non viene più considerata nella sua estensione e totalità, le immagini che ad essa si ispirano non si rifanno più alla sua universalità, anzi non viene neppure più messa a tema la natura, bensì le nature che, “… frammentate, non sono mai interi, sono brani”, lacerti, “… inquadrature appunto.” (1)

    E’ a partire da tali presupposti che, a mio avviso prende avvio la riflessione di Beraldo che, con grande acutezza, ha saputo rilevare come non soltanto le nuove iconografie massmediatiche e tecnologicizzate, ma anche i modi di ricezione dell’Arte tradizionale potessero rientrare nell’universo dell’immaginazione popolare.

    Probabilmente non è infatti irrilevante sottolineare il fatto che il grande pubblico, spesso, legga, ad esempio, le opere di Giorgio Morandi al di fuori delle sue acutissime analisi degli strumenti e dei modelli della visione e men che meno si ponga il problema del “colore di posizione”, inteso, secondo le splendide parole di Cesare Brandi (2) come capacità di conferire alla medesima nota cromatica o luminosa, valori del tutto diversi a seconda della sua dislocazione nella sintassi del quadro, così pure, dei dipinti di Virgilio Guidi, probabilmente non verranno approfonditi i fondamenti della sua universale ontologia luminosa, o ancora dell’Arte di Carlo Carrà non saranno indagati gli aspetti relativi alla ricerca delle sorgenti originarie di un linguaggio plastico-espressivo nazionale, mentre, rispettivamente potrà apparire più facilmente attraente la serenità di un cosmos considerato familiare, o l’apparente semplicità oltre ogni dramma o, ancora, una esteriormente salda, sognante e naturale compostezza e tranquillità.

    Diverse modalità di ricezione, queste, d’altronde sostenute anche dalla creazione, nel corso degli anni, di nuovi supporti organizzativi e dalla creazione di un vero e proprio turismo artistico per l’Arte Contemporanea, caratterizzato dalla moltiplicazione degli eventi espositivi tutto compreso : visita ovviamente guidata, dépliant o catalogo, ristorazione, gadget, merchandising e quant’altro.

    Rispetto a questo mondo, Beraldo non sceglie la strada della protesta, della contrapposizione, dell’ironia , dello sberleffo, bensì quella di una sorta di vagheggiamento della possibilità di far emergere una cultura popolare in qualche modo armonica.

    In fin dei conti, che le persone cosiddette comuni abbiano la possibilità di avere un quadro in casa, di coltivare dei bisogni estetici avendo superato le più stringenti necessità, le risposte non dilazionabili all’urgenza dei bisogni primari, nonostante tutti i pianti dei cosiddetti fini intellettuali, è pur sempre qualcosa di positivo.

    In ogni caso , con grande capacità di comprensione, Beraldo ha rilevato come non soltanto le nuove iconografie dell’informazione massificata rientrino nel firmamento dell’immaginario popolare.

    Proprio il nuovo pubblico assuefatto ai nuovi mezzi di comunicazione, poteva infatti anelare con particolare intensità a universi con differenti caratteristiche, a un’immagine stabile e colta, a un’atmosfera determinata, fissa, unitaria e per ciò forse in qualche modo rassicurante, mentre viceversa l’immagine massmediatica può apparire oltremodo sfuggente, frantumata, massimamente indeterminata e talora persino intercambiabile. 

    E’ forse riflettendo su tale contrapposizione che Beraldo intuisce come un’opera volutamente costruita e fondata su una coerenza e continuità di percezioni e di emozioni possa sembrare allora come estremamente desiderabile.

    Al di là della apparente semplicità, il modo di operare di Beraldo sembra frutto di un complesso intreccio di relazioni e di connessioni: la sua creatività non si esercita infatti solo sulle icone, ma sui meccanismi stessi della comunicazione contemporanea, nell’ambito della quale è in grado di sottolineare il fatto che non esiste solo la voglia di nuovo, di inedito, ma anche, al contrario, un desiderio di acquisito, di certo, di noto, di almeno apparentemente familiare.

    Comunque i suoi Paesaggi, la sue Nature morte, non sono mai frutto di una sensazione diretta, fondandosi viceversa su una specie di pre-testo individuato nelle diverse modalità e qualità d’immagine presenti soprattutto in una stagione artistica, ormai stabilmente riconosciuta e tuttavia non così lontana da risultare del tutto incomprensibile o estranea, quale quella gravitante attorno al cosiddetto Novecento Italiano.

    Individuato un tale fondamento linguistico e culturale in senso lato, Beraldo ne disarticola le modalità e gli aspetti in un lessico che poi ricompone in nuove immagini solo apparentemente originarie.

    Anche se accade che talvolta qualcuno creda addirittura di riconoscere i luoghi, i paesaggi di alcuni suoi dipinti, questi nascono infatti da una composizione puramente mentale e pittorica.

    Il blu ultramarino delle acque mediterranee, il bianco abbacinante delle sue coste, i verdi e i bruni delle chiome ombrate dei pini che popolano i suoi paesaggi, le sagome “… castigate, geometriche essenziali” (3) delle sue nature morte, le rarefatte spazialità nelle quali frequentemente queste due fondamentali tematiche sembrano raggiungere una raffinata fusione propongono in realtà pure immagini la cui “… forma … rappresenta” sì “un riferimento alla realtà, ma non ne interpreta che l’illusione, la proiezione mentale, il sogno.” (4)

    Per molti versi mitizzandosi la cultura alta continua a sopravvivere e, addirittura a vincere anche a livello popolare.

    In tale orizzonte viene ovviamente acquistando una fondamentale importanza la particolare formulazione pittorica conferita alle diverse immagini, come emerge dalla grande considerazione riservata da Beraldo alle differenti tecniche artistiche: ciascuna delle quali di per se stessa evocatrice di particolari mondi della fantasia.

    A tale proposito, particolarmente significativo appare il suo speciale rapporto con l’affresco: non è probabilmente un caso se, in questo ambito, i suoi dipinti, invece di sottolineare, come accade ad esempio al Saetti maturo, (un maestro al quale, per diversi aspetti, Beraldo pare talora richiamarsi ) la consistenza delle materie, fino a risentire, in qualche modo, del variegato universo delle poetiche informali, siano al contrario andati via via ispirandosi agli impalpabili biancori, alle superfici asciutte e levigate degli affreschi quattrocenteschi, meglio adeguate a rendere “… non paesaggi e oggetti, ma il soffio di essi, individuato in un’atmosfera ideale dominata da una grazia languida, ma vivida …” (5)

    Un mondo, quello proposto da queste opere di Beraldo, come distaccato, fuori dal tempo, frutto di un lavoro sul linguaggio di stampo “citazionista e anacronista” (6) dal quale lo stesso autore pareva, per certi versi, volontariamente autoescludersi.                   

    “Non mi interessa mettere dentro il quadro la mia biografia, di fronte al quadro devo mettermi da parte”, spiegava infatti Beraldo, ribadendo: “I miei sentimenti sono personali e non devono interessare agli altri. Chi guarda, invece, può anche interpretare con i suoi sentimenti quello che vede.” (7)

    Eppure un simile modo di operare, un tale universo delimitato e sicuro nel quale le punte problematiche, i rischi, le contraddizioni e i conflitti appaiono ormai come superati, ha, alla soglia del nuovo secolo, cominciato come ad essere intaccato, a venir in qualche modo messo in discussione.

    Infatti, nelle opere più recenti, la stessa integrità delle figure pare talora venir meno, mentre le immagini cominciano come a frangersi in un continuo accavallarsi di piani e di emergenze segniche non più riconducibili a una certa e riconoscibile referenzialità.

     L’unità dell’immagine pare moltiplicarsi in una serie di momenti diversamente compresenti, mentre l’illusionismo rappresentativo lascia ora il campo alla empirica bidimensionalità della superficie, sulla quale sono i colori, con il loro affiorare, distendersi o incupirsi, a creare sempre nuove e differenti allusioni di spazio.

    Anche la gamma dei colori subisce una significativa trasformazione: i bianchi, i verdi, le terre – i toni della presenza, del qui ora, del riferimento a una possibile natura, sembrano come sopraffatti dall’avanzarsi e dal dilagare di più accese cromie.

    La limpidezza serena degli azzurri sembra come surriscaldarsi sfociando in concitate sinfonie di rosa, di fucsia, di Magenta e di cremisi, di porpora e carminio, talora qua e là contrappuntate dai toni più bassi degli amaranto e dei viola: i colori dell’animo, del desiderio e del cuore che, in un continuo insinuarsi di sottili energie centrifughe e centripete, vanno conquistando la superficie, forse ad adombrare ulteriori inafferrabili conoscenze, in una misteriosa, spirituale rubedo, capace di travalicare, in più ampie profonde corrispondenze, l’apparente evidenza dell’esteriorità delle cose e dei loro involucri.

    Forse, nelle sue opere, Beraldo tiene ora conto del fatto che anche una pittura non referenziale, genericamente definita Informale, è ormai ampiamente entrata nel modo di sentire popolare, ma più probabilmente, oltre ogni schermo linguistico, va affiorando in lui il desiderio di un maggiormente consapevole, più trasparente e compiuto coinvolgimento, l’aspirazione a un sempre più libero e mobile equilibrio degli elementi, oltre ogni delimitazione naturalistica, o ogni astratta scissione o gerarchia metafisica.

    Non a caso nelle sue opere più recenti diviene spesso impercettibile o addirittura scompare ogni linea d’orizzonte.

    Una nuova generosità, una nuova capacità di accettare di mettersi più compiutamente in gioco in prima persona, una nuova sapienza aperta alla percezione interiore di realtà ultrasensibili sembra ora governare la creatività del pittore, in grado ormai di dare spazio a espressioni più sorgive e dirette per le quali non appare più necessario ricorrere a immagini in un certo senso predeterminate.

    Verso l’immediato: sembra questa la direzione intrapresa da Beraldo, pur nella coscienza della natura forse ossimorica di tale espressione.

    Forse infatti dall’immediatezza si può solo essere sorpresi.

     

    Dino Marangon

     

    Note

     

    1.     Da W. GUADAGNINI, Natura e artificio, nel catalogo della mostra, Pop Art Italia 1958 – 1968, a cura di W. GUADAGNINI, Galleria Civica di Modena 17 aprile – 3 giugno 2005, p. 149.

    2.    Vedi C. BRANDI, Poscritto – 1952, a, Cammino di Morandi, ora in C. BRANDI, Scritti sull’Arte, Torino 1976, p.36.

    3.    Così lo stesso Beraldo, in una conversazione con Paolo Levi. (Vedi, La dimensione metafisica dell’affresco. Colloquio tra Franco Beraldo e Paolo Levi, in, Franco Beraldo, Torino 2001, p. 11.)

    4.    Da S. ARFELLI, Dove si nascondono gli Dei, nel catalogo della personale di, Franco Beraldo, presso la Galleria d’Arte Nuovo Segno, Forlì 2002, pp. 12 – 14.

    5.    Da S. ZANELLA, nel catalogo della mostra, Franco Beraldo. Mostra Antologica. 25 anni di Pittura 1976 – 1991, Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate 1992.

    6.    Ivi.

    7.     Da, La dimensione metafisica dell’affresco. Colloquio tra Franco Beraldo e Paolo Levi, cit. p. 11.



    Alla ricerca della verità del colore

    di Virginia Baradel

    Nella fase di avvicinamento alla pittura di Franco Beraldo il critico si documenta su cataloghi e testi di colleghi che nel tempo ne hanno seguito e interpretato la vicenda artistica. A scorrere la letteratura critica compare in primo piano la sospensione metafisica del richiamo tematico novecentista: natura morta nel paesaggio. Dunque prende forma una linea di riflessione centrata su un’iconografia classica, rivisitata in modo intenzionale e originale. Concetti come sospensione, essenzialità, limpidezza, contemplazione, vengono caricati su una scena teatrale primaria dove ogni cosa è insieme figura particolare e forma universale: alberi e case, cielo e mare diventano icone atemporali di alberi e case, di cielo e mare. Elaborato il tema della sospensione metafisica e della riduzione formale, lo sguardo critico apprezza e mette in risalto la competenza pittorica che usa con padronanza i toni locali, una speciale chiarità mediterranea e i segreti della tradizione veneziana unita a quella novecentista, memori consapevoli di remote origini bizantine. Tutto questo depone a favore di una pittura assai composta e fiscale e il critico se ne fa una ragione.

    Poi va a trovare l’artista e la sua diligente ermeneutica ha un brusco soprassalto quando comprende che il severo percorso altro non è stato che una sfida continua all’autonomia del colore che alla fine approderà solitario ad un astrattismo felicemente spericolato. Incontrarlo e parlare con lui nello studio, attorniati dai sui lavori, significa comprendere che al centro del suo lavoro non è certo la citazione novecentista ma la ricerca della verità, ovvero della potestà di luce e sostanza, del colore. Tra l’icona sacra, ieratica nelle forme, non finita nei dettagli, che fu il suo incipit giovanile, e l’odierno, sorprendente protagonismo del colore, sembra esserci dunque un disegno, non calcolato ma fermissimo nel desiderio di sperimentare e sfidare ogni sorta di epifania cromatica.

    E dunque entriamo, meno armati di cognizioni e più curiosi, nel vivo della sua ricerca.

    La biografia artistica di Franco Beraldo appare, sino ad oggi, come una continua dialettica tra polarità divergenti. Da un lato troviamo la fissità icastica, l’alta definizione di forme e spazi ben poco suscettibili di alterazioni espressive; dall’altro si dipana un corso più libero, più sensibile che sfocerà, con matura innocenza, nei dipinti e nei vetri dell’ultimo periodo.

    In principio egli ha evocato, in modo chiaro e distinto, la “natura morta” con gli oggetti dipinti in negativo, per via di assenza. Le sagome sono appena delineate, come forme senza volume, come canone senza espressione, impronte, calchi di sola luce disposti in un certo ordine spaziale. Se non fosse per l’estrema politezza formale il pensiero correrebbe, come è stato fatto, a Semeghini o ai maestri chiaristi, ma pare davvero una forzatura. Non si tratta di una sottrazione per via di stesura, di estenuazione del colore; ma di una depurazione condotta per via di pensiero, un approdo alla dizione formulare irrelata che nomina le cose ma non le racconta. La controprova della dimensione intellettuale di questa produzione è l’impiego di colori freddi e l’assenza di inquadratura: le forme degli oggetti sono sospese nel vuoto, collocate entro un unico piano che si qualifica subito come la superficie bidimensionale della tela. Niente colori caldi, nessuna distrazione, nessun rosso. “Un tubetto di rosso mi durò trent’anni”. Beraldo aboliva l’espressività a favore della concentrazione, della ricerca condotta su una pittura purificata, privata dei suoi effetti, delle sue vanità. Dunque un esordio che è stato del tutto sperimentale: come se l’artista stesse mettendo a punto il suo diapason creativo per dare il tempo e gli accordi alle composizioni che verranno. Più che di rappresentazione si trattava di una forma di meditazione su un tema che è stato fondamentale nella storia dell’arte e che diventerà ricorrente nella produzione di Beraldo. Egli usa di quel canone in modo castigato e strumentale. Proprio perché non attiri attenzione su di sé, porta al grado minimo di percezione il dettato pittorico: niente deve intromettersi tra il pittore e la tela, niente tra l’osservatore e il dipinto. Si riparte dalla semplificazione estrema, dal silenzio. E’ opportuno insistere su questo primo momento perché nel simulacro di un tema canonico, la pittura appare spoglia, di una purezza disadorna, docile seppur adamantina (anche in senso minerale). La stessa cosa accade per il paesaggio dove stavolta è il colore, come luce e come pasta, a farsi oggetto di verifica, in una soluzione di sintesi che i critici, a ragion veduta, hanno definito morandiana. La veduta, perché tale è l’inquadratura del dipinto, appare subito come incastro di forme visibili trasformate in superfici pittoriche: case, alberi, alture, mare, cielo, diventano campiture cromatiche, dentro le quali tuttavia il colore palpita, si manifesta come superficie sensibile. A differenza della natura morta, il paesaggio è consustanziale alla pittura. Il paesaggio moderno è una forma di pittura intimamente analogica, senza linea e divisione netta tra i piani. In realtà i confini tra le pezzature mantengono un filo di scarto assimilabile alla linea, che riemergerà in modalità cubista, libera e gestuale, nei dipinti di transizione verso l’ultima stagione astratto-informale. Nei paesaggi degli anni ottanta si coglie nettamente la trasformazione della visione in composizione, dove i piani diventano quinte cromatiche significanti e la manualità del tracciato pittorico non si nasconde ma accompagna lo sguardo. Due olî del 1985 scandiscono due ipotesi diverse di verifica: l’una più metafisica, l’altra più naturalistica. Il primo (36585) (titolo e tra parentesi il rif in catalogo) è un paesaggio siciliano in cui si scorge una citazione dechirichiana, sia di tipo iconografico che stilistico. Il secondo (113985) è un paesaggio marittimo toscano con due grandi case sui toni del rosso. La varietà dei verdi, degli ocra e dei bruni che si assiepano nella parte del paesaggio di terra, segue un andamento declinante verso il mare manifestando la propria natura pittorica nella pennellata corsiva, mentre il mare e il cielo oppongono, al limitare dell’orizzonte, due piani conclusivi di bicromia azzurra. Entrambi i dipinti più che sul paesaggio, lavorano sull’autonomia della pittura: l’una nel senso più letterario e metalinguistico, l’altra più compositivo. La dicotomia procede: nel dipinto 66687 del 1987 avviene un’ulteriore verifica: la citazione metafisica rimane, ma i piani cromatici si scaldano, si animano, mentre nella natura morta sul tavolo compare un elemento più libero, più segnico, non ingabbiato in una forma netta, indizio di un’interiore dialettica tra le due dimensioni e di uno sviluppo futuro. Tuttavia, in quel momento, l’aura metafisica è ancora prevalente, anche se il moto interno delle stesure cromatiche appare assai vitale, persino il mare, nel 382009, si fa ondoso, il cielo stellato e gli stessi oggetti mostrano una fusione tonale più mossa. E’ un quadro pittoricamente turbato, spia di mutamenti in altre e opposte direzioni. Tale crisi della compostezza mostra un ulteriore passaggio nel dipinto 76797 del 1997 dove ai bordi esterni dell’inquadratura, che si apre sul paesaggio marittimo, figurano due profili arborei che sembrano i lembi irregolari di uno strappo. In questo quadro indiziario, anche le superfici delle forme più definite sono in subbuglio: il colore palpita e l’intimo sommovimento produce una luce nascente, un chiarore aurorale nella trama delle pennellate che allude a una fecondità segreta, inarrestabile. L’incontro tra i due piani e l’avvicinamento della natura morta alla vitalità pittorica dei paesaggi, scioglie l’aplomb metafisico. Beraldo dichiara sin d’ora, proprio nel momento in cui la rimemora, la totale pretestuosità della citazione: la sua pittura non mira alla rinascita di stereotipi, ma a scoprire l’anima segreta del colore. In questo scenario i paesaggi che possiedono tratti “morandiani” appaiono, sulla distanza, come l’altra faccia della ricerca nella quale si va esercitando la componente romantica sulla via di una riduzione mimetica che dei volumi esalta i piani e delle forme naturali prosciuga le ombre.

    In questo processo è fondamentale la tecnica. In precedenza Beraldo aveva lavorato sulla carta con l’acquarello. Il colore sulla carta è autentico, quel medium povero restituisce la sincera evidenza del colore, la sua luce intatta. L’approdo all’affresco è prodotto da una medesima volontà di ricerca, di sperimentazione. Le prove di buon fresco degli anni novanta sono centrali nel percorso artistico di Beraldo, tanto che i critici che hanno scritto su di lui, ne hanno tenuto conto come del baricentro della sua poetica. Ma non v’è nulla di compiacimento tattile, di effetti di superficie. “L’affresco è aristocratico” ci dice, “è imperituro, capace di millenaria solidità, nasce con l’uomo che lascia traccia di sé”. Racconta dell’incanto di un Cristo pantocrator ammirato in una grotta nel foggiano, nei pressi di Missaglia, con l’acqua che gli scorreva sopra eppure non ne intaccava l’antica, ermetica, potenza. Racconta dell’alchimia della carbonizzazione che produce cristalli di colore, prismi di sale, che affiorano verso la superficie: dice che l’affresco “cresce in avanti”. La sua ricerca riguarda il colore segreto, la complicità profonda, non negoziabile (per questo, anche, aristocratica e non borghese) che lo lega al processo. Il pittore e il colore ingaggiano ogni volta, ad ogni cimento, una sfida, un rito di scoperta. Si tratta di un “lavoro al buio”: il pittore lavora, calcola, predispone e mentre egli fa, il colore indietreggia, si nasconde per poi, con l’aria di un giorno, comparire e dire la sua verità.

    Sulle prove d’affresco si è temprata, e allo stesso tempo capovolta, la chiave metafisica e contemplativa della pittura di Beraldo. Nelle nature morte entro paesaggi lo spazio, immoto e antinaturalistico, è privo di qualsivoglia relazione narrativa con il piano di fondo. La partitura delle forme è sintassi spaziale, è disposizione cromatica, orchestrazione di stesure, tessitura in piano dei colori. E’ pura composizione, che tuttavia non elimina il valore evocativo delle forme oggettuali usate come radar per intercettare la varietà dei colori. Nell’affresco tale assunto diviene trasparente: la scelta tematica appare, in modo ancor più marcato vista l’aulicità del medium, come transito formale per verifiche squisitamente pittoriche. Beraldo ricorre alla citazione per ragioni tutte interne al filo del suo pensiero: quel dettato di forme rigorose, che guardano alla geometria non meno che ai pigmenti, ha perso comunque l’innocenza sulla via della storia. La chiarezza di una formula, la natura morta con solidi geometrici, bottiglie, uova e conchiglie, appartiene ai Maestri del Novecento come, poniamo, lo spazio architettonico a quelli del Rinascimento. Ad essi appartiene anche il recupero dell’affresco come magistero pedagogico e celebrativo. Un pittore che rimedita sulle tecniche e le vocazioni della pittura del Novecento dei grandi maestri, non può che vivere questa avventura come una sfida, una partita aperta con la sovrana inattualità dell’affresco e della natura morta. La citazione tuttavia non è inerte, l’indipendenza della formula non è stereotipo, ma tema. Tema che diventa motivo di accordo compositivo. E qui sta la natura originale dell’idioma pittorico di Beraldo e solo partendo da qui si riesce a comprendere appieno gli sviluppi successivi della sua pittura. Se fosse stata solo citazione, cioè prelevata come spoglia iconica dal bacino delle immagini a disposizione del vorace occhio contemporaneo, avrebbe lavorato sul clichè e costruito la sua originalità, semmai, sull’ossessione visiva. Invece quel riporto tematico è ragione prima, è pretesto di un’originale tessitura pittorica e dunque rivissuto come varietas e non come vanitas, come fonte e non come memento. Il concetto della vitalità spaziale e cromatica del richiamo iconografico è presente, in vario modo, in tutti i critici che si sono occupati della pittura di Beraldo. Quando parliamo di vitalità intendiamo la verifica, la riapertura di credito pittorico, non alludiamo a qualche forma di energia espressiva che il rigore formale domina sino agli anni duemila con precisa intenzione. Beraldo dipinge nature morte e paesaggi alla stregua di un’ipotesi di lavoro, come se stesse controllando i fondamenti, fissando campi e orizzonti di evenienze. Solo praticando e verificando tecniche e mezzi espressivi e rafforzando, nella ripetizione variata, l’ordito cromatico potrà, negli anni, sconfinare in altri e ben diversi dominî espressivi sino a capovolgere il dettato originario. Le ombre diventeranno lacerti di segno, le luci accensioni locali e i colori si libreranno con meditata gestualità ancorata agli indizi segnici. La compattezza delle forme, della quale tuttavia si avvertiva l’intimo brusio, è stata dunque un lungo e fecondo l’antefatto alla libertà della composizione che si affermerà nel corso del primo decennio del Duemila. Lo scioglimento dei vincoli formali avverrà all’interno dello strappo d’affresco, il che ha qualcosa di innaturale, di molto sottile e provocatorio. Proprio là dove, più che in ogni altra piega della storia dell’arte, avvenne la fissazione minerale delle forme si manifesta l’idioma informale. Quinte dinamiche di polifonie cromatiche  trascolorano le une nelle altre, si accendono e si velano, sfumano, si effondono, simulano l’assorbimento del supporto. In altre parole, trattandosi di affresco, ingannano l’occhio, prendono per la coda le aspettative dell’intenditore riguardo al medium. In questa sperimentazione si può ravvisare una specie di malizia concettuale che va nella direzione di rendere pur sempre omaggio al colore e alle sue infinite potenzialità, alle sue metamorfosi.

    Nell’ultima stagione è il colore stesso a prendere l’iniziativa della sua apparizione e della sua narrazione. E’ il colore come luce sensibile, come spirito di una materia sottile che sparisce nel darlo alla luce, a dettare il verso della composizione; è il gradiente cromatico, timbro e frequenza, a promuovere andamenti, gesti orientati e trasalimenti. Con o senza cenni grafici di orientamento visivo e mnemonico che possono affiorare nel subbuglio delle partiture cromatiche. Ora si, il rosso irrompe, il giallo dilaga, gli azzurri si inebriano dei sussurri dei colori caldi stemperandosi verso l’ampia gamma dell’indaco e del viola. Tutto esplode eppure, tout se tient. Si coglie, infatti, anche nei dipinti più liberi, più gestuali, un sotterraneo equilibrio, un senso di ordine remoto che offre scampo all’indicibile. Il colore possiede una sua forma o, se non una forma, una sede, un valore di posizione, un peso specifico, una voce in quel punto nella vertigine della libertà. Niente è gratuito, casuale; quella straripante libertà arriva da lontano, arriva dall’opposto. L’antico rigore è alle corde ma l’innocenza è coltivata, e non per questo meno felice. Ciò che conquista è il disincanto che consente tutta questa libertà, di farsi e disfarsi, dei moti dei colori. Nel papier collé il gioco si fa scoperto quando la faglia dello strappo simula pendii, evoca distanze, traccia illusioni prospettiche, lontananze. Dal gioco dei collages, alla meraviglia delle paste vitree: ormai va in scena la lighteness del puro godimento estetico, senza remore. Alla fine di un lungo percorso si arriva dunque al principio, secondo un’antica logica che collega la sapienza, al ritorno all’infanzia. Come dire: dalla ricerca all’incanto, l’una rende ragione dell’altro. Con la benedizione del Novecento Italiano.


    Le intenzioni più vere

    di Stefano Annibaletto

    Finché si pensò che la Terra fosse piatta, nell'immaginario comune i mari - raggiunti i suoi bordi estremi - precipitavano nel vuoto con assordante fragore. Non sappiamo dove si schiantassero quelle acque, ma i marinai rifiutavano di navigare allontanandosi troppo dalla terraferma.

    L'idea di un mondo incapace di contenere i suoi liquidi e i suoi corpi cozza contro la nostra logica e la nostra conoscenza. Eppure quella superficie, oggi insufficiente, possedeva aree inesplorate dove si riteneva vivessero leoni, e per molti secoli fu abbastanza estesa e misteriosa da poter ospitare mitologie universali, ancora in grado di dialogare con le nostre vite, e archetipi entrati in un inconscio collettivo tuttora palpitante. In fondo pure tutta la storia della pittura, fino ai collages cubisti di Picasso e Braque, si svolse in una compressa porzione di spazio. Lucio Fontana ebbe l'ardire di sventrarla. Ugo Mulas lo fotografò nel 1965 in una celebre serie di scatti: l'artista punta la lama del cutter sulla tela, il braccio è teso e l'occhio immobile come di un chirurgo che sta per farsi strada verso la tagliente verità della cura.

    Non c'è questo spietato rigore nelle carte che Franco Beraldo allestisce da qualche tempo a questa parte. Fogli preparati con larghe passate di una tempera molto diluita e pertanto poco coprente, che si incrociano con direttrici regolari e il contrappunto di un dripping misurato e discreto. Le tinte sono quelle vive della sua tavolozza recente, i rossi, i gialli e i blu brillanti mutuati (assieme alla liquidezza e alla trasparenza) dalla lavorazione del vetro di Murano. Beraldo strappa queste carte (scompone la linearità del testo dipinto) e le accosta in nuove combinazioni, con un gioco strutturalista che ricorda le ricerche metanarrative di Italo Calvino. A volte le tessere si sovrappongono, a volte i frammenti prendono forme differenti e disegnano inedite geometrie sul fondo.

    Una simile, gioiosa “pittura con le forbici” ridiede voce a Matisse nell'ultimo, fecondissimo periodo della sua vita. Dopo la malattia, spesso costretto a letto, con i suoi “gouaches découpés” l'artista creò attorno a sé “un piccolo giardino dove camminare”. Con un'analoga spinta finzionale Beraldo crea le quinte di intimi mondi possibili: costruisce con i suoi ritagli dei paraventi a fisarmonica di cui circondarsi, pitture pieghevoli, da raccogliere in albi, da portarsi in viaggio, carte perfino umili nella loro sincerità ma vive, tese tra lacerazione e bellezza, inespugnabili nell'idealità del loro racconto generativo e proprio per questo incuranti dei loro confini.

    Si legge sottotesto la sensibilità paesistica che Beraldo ha dominato per tutta la prima, lunga fase della sua attività, quella economia morandiana espressa nelle forme semplici, nelle terre spente, nella luce uniforme assimilata durante i lunghi soggiorni siciliani. Nei primi anni del Duemila era già esplosa in un colorismo ricercato ed entusiasta. I volumi erano diventati astratti, i contorni erano diventati segni, le masse erano diventate campiture lavorate per strati sovrapposti con un ductus gustoso ed evidente.

    Emozionano, come tutti i riti di passaggio, quei lavori in cui la pittura di genere, per quanto personale, comincia a franare verso una libertà non ancora compiuta ma già consapevole. Le grandi tele di quegli anni vibrano di una pulsione controllata ma continua; negli agganci ad altre esperienze talvolta condivise con gli artisti veneziani della sua generazione, fin dall'inevitabile omaggio ad Afro Basaldella, quelli di Beraldo sono sforzi eleganti, spesso perfetti, di raffinare il linguaggio verso una pulizia formale che è anche e soprattutto una castità dello sguardo.

    Ora la tempera smagrita ha fatto affiorare il bianco. Di sottrazione in sottrazione, la carta traspare dal pigmento e in alcuni lavori oggi Beraldo innesta una linfa nuova in certe atmosfere evocate in passato dagli spaziali veneziani: dal bianco escono masse di marroni terrosi, abissi d'azzurro, cunei di carminio. Mondi di un estremo naturalismo in cui il rimando organico del colore fa rivivere gli antichi e mai dimenticati paesaggi. La luce prende il sopravvento, anche quando è messa in scena la sua assenza: da poco è apparso un ciclo di neri, neri gentili ma decisi, vellutati e pensosi.

    Rinunciare alla veduta, alle forme, alla pasta cromatica, alle tinte, ai segni, richiede coraggio. Scarnificare il proprio discorso espone la nudità delle intenzioni più vere. Beraldo crede senza riserve nella pittura.


    Franco Beraldo

    di Cesare Orler

    Giuseppe Ungaretti, “Il Porto Sepolto” in “L’Allegoria”


    Vi arriva il poeta

    e poi torna alla luce con i suoi canti

    e li disperde


    Di questa poesia

    mi resta

    quel nulla

    d’inesauribile segreto


    Mariano il 29 giugno 1916


    Perché iniziare con una poesia di Giuseppe Ungaretti?

    Franco Beraldo condivide con l’autore alessandrino la poetica del frammento.

    Ungaretti ritiene che si possano collegare immagini lontane senza costruire nessi logici immediati. In questo modo permette al significato di addensarsi in pochi vocaboli che iniziano a brillare perché illuminati dai termini precedenti e successivi. Ecco che parole apparentemente senza connessione instaurano un rapporto simbiotico con l’intero testo pur lasciando che ognuna risuoni nella sua autonomia e nella sua purezza. Nelle medesime dinamiche si articolano i frammenti di Beraldo.

    Prima di entrare nel dettaglio, è utile comprendere la loro origine. Il maestro si cimenta nell’arte musiva e nella lavorazione del vetro. Dalla prima, prende coscienza della fisicità dell’opera e in particolare dei confini delle tessere che al momento della giustapposizione creano una superficie segmentata e disomogenea in cui il risultato d’insieme è visibile ma ogni componente vive in un proprio piano. Dalla seconda, apprende un nuovo senso del colore e della luce. Il vetro attraversato dal fascio luminoso si comporta come un prisma e lo scompone nelle sette tonalità dello spettro restituendolo con diversi timbri e intensità a seconda della capacità di rifrazione. Beraldo crea dei mosaici vitrei che srotola e dentro cui soffia per dare vita ai suoi lavori. Durante questa fase, la trasparenza diventa massima laddove non è presente alcun pigmento: si delineano le lame di luce.

    Questo risultato viene trasposto nell’ultimo ciclo di opere.  

    La scelta della carta e la sua applicazione a collage rispetta questa poetica e si impone sull’utilizzo della pittura su tela perché le sue proprietà di assorbimento immediato del colore impediscono ripensamenti e non perdonano il minimo segno fuori posto.

    Questo supporto, irragionevolmente sottovalutato da un mercato che ha mitizzato la tela come unica vera Dea, è il teatro dove si sono sempre svolti i primi bozzetti preparatori, dove si annotavano in velocità disegni appena concepiti dalla fantasia e appunti di viaggio, basta pensare, per restare in ambiente veneziano, ai “Cahiers des Voyages” di Riccardo Licata.

    Beraldo la utilizza principalmente in tre declinazioni.

    La carta pescia da stampa su cui opera prevalentemente e che strappa per creare la frattura che deve raggiungere il bianco più puro, quello che nemmeno il colore a olio sarebbe in grado di restituire; la carta da scena che per la sua caratteristica tenacia può sopportare le pieghe, i lavaggi e un gesto più aggressivo; infine la carta patinata dove il colore scivola e corre incontrollato e la mano si trova quasi a incalzare la colatura.

    COLORE-FORMA-SEGNO

    Non avrebbe senso, perché sarebbe semplicistico, associare i colori a dei sentimenti e stabilire dei rapporti emozionali tra le rispettive gamme cromatiche in gioco. Molto più veritiero e rispettoso di tale complessità è invece partire dal presupposto che dall’incontro/scontro tra pigmenti, si origini il vero sentimento. Un rosso non è più esclusivamente associabile alla passione amorosa o al contrario al sangue e al dolore. Quella tinta, in relazione a un blu, può esprimere qualcosa di inedito e indecifrabile che trascende da emozioni pure. Ecco allora che i due colori possono lacerarsi a vicenda o sintonizzarsi sulla stessa frequenza e tutte le teorie sulla percezione cromatica crollano.

    Per quanto riguarda la forma, è interessante notare come sia proprio il colore a legittimarne l’esistenza.

    Le forme esistono autonomamente e solo in seguito assumono un aspetto cromatico?

    Oppure è il colore che delinea sagome e spazialità?

    In questi lavori si verifica la seconda.

    La forma non esisterebbe senza l’intervento coadiuvante del colore che fornisce dei confini tra le pennellate e le campiture. Nonostante questo, è difficile parlare di forma in senso stretto o in modo univoco. Si possono sviluppare due analisi su livelli che a più riprese si intersecano. Ci sono forme che vengono create dalle pennellate e altre dovute allo strappo della carta e al successivo inserimento nel collage. All’interno di queste infinite combinazioni, si ottengono le già citate fratture.

    Beraldo lascia correre il pennello per tracciare delle linee che, ipotizzando per semplificare, generano un triangolo su una carta e un cerchio sull’altra. Nel momento in cui vengono strappate si annienta la conformazione originale e si crea qualcosa che cambierà ulteriormente la sua natura quando si fanno incontrare i due frammenti in un gioco di piani che si sormontano e si nascondono a vicenda. Il nuovo assetto dà vita a una forma irripetibile che non vive né in un frammento né nell’altro: in una sorta di terra di nessuno. Quel terreno è l’arena dove la mano dell’artista sconfigge il caos.

    Un discorso non secondario merita il suo segno calligrafico, fluido e automatico.

    Le pennellate singole, per quanto imprevedibili, hanno una monodirezionalità in quanto lo strumento è uno e non può aprirsi a raggiera. Nel momento in cui si strappano le carte e si ricompongono in diverse posizioni e assetti, ecco la segmentazione.

    Il risultato è un intricato labirinto di linee frastagliate, un zig zag improvviso che mai si potrebbe ottenere mantenendo il pennello sulla tela. La minima curvatura viene abolita dall’incrocio fitto e irripetibile. La calligrafia del suo gesto non è una nuova invenzione, ma la riconquista di un segno che aveva elaborato già nei primi anni Sessanta, ancora minorenne, quando la scena internazionale era dominata dagli Irascibili di New York e a Venezia operavano personalità come Emilio Vedova e Tancredi Parmeggiani. Testimonianza di questo zeitgeist è una carta del 1963 che rende possibile creare un ponte con le opere più recenti e attraversare quasi sessant’anni di pittura senza perdere né la continuità né la cifra stilistica che giunge oggi matura, sicura e rafforzata dalla sperimentazione di qualsiasi tipo di esperienza artistica.

    Tra le ultime creazioni possiamo annoverare delle carte che si ripiegano a fisarmonica su loro stesse e fratturano lo spazio come le pale d’altare. Aperte o chiuse forniscono due visioni, ma dispiegate forniscono svariate immagini a seconda dell’angolo di inclinazione da cui le si osserva, in quanto non saranno mai piane. Assistiamo così all’ennesima applicazione del principio di frammentazione che ha costituito il fil rouge dell’intero ciclo e dell’intera carriera di un maestro che riesce ancora a stupire e reinventarsi, con lo stesso desiderio di sperimentazione che ha caratterizzato quella prima carta del 1963.