Recensioni sull'artista Andrea Tacconi

    Punti di vista.

    Percezione e cognizione nelle opere di Andrea Tacconi.

    Tullia Zanella

    Artist Coaching

    Il primo, frontale, punto di vista

    Per tradizione e cultura, ma anche per intuizione quasi fisiologica, in presenza di un quadro, o un’opera d’arte visiva appesa alla parete, ci si pone frontali, a una distanza congrua, né scarsa né eccessiva, in modo che si possa godere di una visione d’insieme e allo stesso tempo non perdere qualche dettaglio significativo. E’ un’operazione istintiva, forse scontata, che richiede un tempo commisurato all’interesse e agli strumenti di analisi di cui l’osservatore dispone1.

    L’acquisizione dell’immagine avviene istantaneamente, a colpo d’occhio, per così dire; nel farlo ci si avvale di un unico punto di vista, rigorosamente frontale, come la prospettiva tradizionale insegna ormai da secoli: per osservare un mondo articolato su tre dimensioni e trasporlo su un piano bidimensionale, la primaria necessità è stabilire un primo, unico punto di vista2. Un punto di fuga, una linea dell’orizzonte, e il gioco è fatto! Da lì si può vedere tutto ciò che c’è da vedere, tenendo comunque presente che ogni rappresentazione, e quindi ogni visione, è in realtà il frutto di un compromesso: ciò che sta davanti nasconde ciò che sta dietro, ciò che si trova in primo piano è più grande di ciò che si colloca sullo sfondo, e così via…

    In questo senso anche i lavori di Tacconi a una prima occhiata sembrano quasi riflettere i meccanismi della prospettiva tradizionale: se infatti ci si pone davanti a una sua opera, la prima impressione che se ne ricava è quella di una superficie totalmente bianca nei quadri lignei (Sfaccettature), o uniformemente nera, nel caso delle opere su carta (Circle, le serie). Anche qui, quindi, secondo la prospettiva e l’usanza, per istinto ci si colloca frontalmente al quadro, privilegiando un punto di vista da cui si percepisce un’unica tonalità cromatica. Al massimo, con la luce corretta, si intravedono alcune sfumature colorate, a lato dei regolari cubi equidistanti uno dall’altro. In un certo senso, ciò che sta davanti (il bianco) pare nascondere ciò che sta dietro.

    A mano a mano che si intensifica l’osservazione dell’opera, tuttavia, appare sempre più evidente come il bianco non nasconda del tutto le altre facce dei cubi, - che postuliamo a questo punto essere colorate sulla base del riflesso intravisto - ma, anzi, ne renda ancora più interessante la presenza. Il meccanismo è noto: nascondere per rivelare, ammantare per invogliare un disvelamento, un po’ alla Christo, un po’ a mo’ delle Madonne rinascimentali, che fingono di voler coprire le nudità del bambin Gesù per attirarvi ancora di più l’attenzione dell’osservatore ed evidenziarne così più marcatamente la natura umana3.

    Ai lavori di Andrea sottende però un altro meccanismo ormai noto nell’arte dell’ultimo secolo e mezzo: la prospettiva scientifica, teorizzata nel corso del ‘400, non è più sufficientemente esaustiva quando si tratta di rappresentare un mondo moderno (e post moderno), altamente complesso, in cui suggestioni e stimoli diversi si accavallano, spesso contemporaneamente, causando una forte confusione percettiva e semantica. In ambito artistico, in particolare, il primo elemento a essere messo in discussione è l’unico ed esclusivo punto di vista, che evidentemente non esaurisce più tutte le possibilità rappresentative della realtà: Cubismo, Futurismo, Surrealismo e le altre Avanguardie storiche tendono a rompere la prospettiva, proprio per indagare nuovi e più convincenti modi di trattare il reale. Consapevoli ormai che ciò che si vede non è tutto ciò che esiste, si studiano nuove tecniche e soluzioni rappresentative per includere, oltre al visibile, suggestioni uditive e percettive in genere, ma anche cognitive (ciò che si sa e si ricorda, ad esempio, anche se nella rappresentazione non è apprezzabile con la vista). Ecco che allora, a titolo esemplificativo, nei dipinti futuristi spuntano rappresentazioni di dati olfattivi, profumi e odori, ma anche onde (elettro)magnetiche, linee andamentali, e così via…

    Anche Tacconi sembra aver raccolto un’analoga eredità, dando forma a dei lavori che presuppongono la tradizione (il punto di vista frontale), ma allo stesso tempo ne negano l’autosufficienza. Perché possa vedere i quadri, infatti, è necessario che l’osservatore si renda parte attiva, e cooperi per esautorare la prospettiva tradizionale, il punto di vista unico, frontale e privilegiato, in favore di una pluralità di possibili nuovi scorci che mostrino non più solo ciò che sta davanti, solo ciò che è più grande. In altre parole è necessario che l’osservatore operi di fronte al dipinto, sulla base di almeno tre possibili variabili: il movimento, il tempo e la luce.


    I fattori chiave: movimento, tempo, luce

    A differenza delle Avanguardie storiche, dove spesso molteplici prospettive coesistono sulla tela (si veda in proposito l’esperienza cubista), nei lavori di Tacconi è l’osservatore che deve costruire una serie di punti di vista diversi, di fronte a un’opera che non si muove. Ed è proprio il movimento il primo fattore-chiave per poter analizzare e apprezzare questo genere di dipinti.

    La riflessione sul movimento non è certo una novità, in ambito artistico: lungo, anzi, è il suo impiego ormai da decenni nel mondo delle arti visive. Senza andare troppo lontano, il già citato Cubismo si occupò del movimento, postulandolo come condizione necessaria alla visione completa e a tutto tondo degli oggetti per poi trasporne sulla tela le varie angolazioni; il Futurismo ne fece un arcinoto studio, con il supporto della fotografia, rendendo spesso il moto il soggetto vero e proprio dei dipinti. E’ tuttavia negli anni ’60 del XX secolo che alcune tendenze artistiche ben identificabili incorporarono in maniera sistematica e analitica il movimento nella propria pratica artistica: si tratta del filone dell’Optical Art e dell’arte Cinetica e Programmata. Queste ultime ricerche, infatti, introdussero opere semoventi, dotate di motori veri e propri, che permettevano all’opera di cambiare continuamente configurazione e aspetto4. In altri casi, invece, le opere di per sé non erano dotate di possibilità di movimento, ma per funzionare necessitavano dello spostamento dell’osservatore, che ne attivava così la dinamica cinetica.

    E’ a questa seconda casistica che è possibile affiancare il lavoro di Tacconi, con qualche puntualizzazione, però: se è vero infatti che le sue opere non sono dotate di motori autonomi, e che presuppongono invece lo spostamento fisico dell’osservatore, è altrettanto vero che esse non creano nessun dinamismo né suggestioni di movimento, ma puntano invece a svelare sfumature, pattern, texture di forme e colori.

    Ne consegue che un’ulteriore, sostanziale caratteristica che differenzia le opere di Tacconi dalle ricerche optical risieda nel ruolo del Caso. Nell’arte cinetico-programmata, infatti, i meccanismi innescati dal movimento, sia esso intrinseco dell’opera, o estrinseco perché dovuto alla persona osservante, generano un ventaglio di possibili configurazioni, spesso talmente numerose da sembrare (ma non essere, naturalmente) infinite. Si tratta della strategia che queste ricerche visive hanno attuato per incardinare e gestire il Caso, ovvero creare i presupposti perché le combinazioni possibili siano tendenti a infinito, ma pur sempre previste all’interno di binari prestabiliti. Come direbbe Eco, in termini lapidari e illuminanti, si verifica in questi casi il passaggio dalle “forme a caso”, alle “forme del Caso”5. In questo caso prestabilire le configurazioni del Caso, crearne le condizioni e limitarne l’espressione, significa di fatto annientare il Caso stesso, che, in ultima analisi, è estraneo alla ricerca Optical e Cinetica.

    Il Caso, d’altro canto, è un elemento che non fa minimamente parte neanche del lessico di Tacconi: ogni dettaglio, ogni sfumatura, ogni linea nei suoi dipinti rispecchia una volontà netta e precisa, un approccio controllato e razionale che prevede e conduce a risultati sempre consapevoli e puntuali. Perfino gli spostamenti dell’osservatore sembrano essere previsti, guidati come sono da colori e forme. Se si considera poi l’elevata minuzia dei dettagli e l’alta densità di elementi che popolano le sue opere, la complessità del lavoro dell’artista acquisisce a buon diritto tutto il fascino del virtuosismo tecnico.

    Dopo il movimento, anche nel lavoro di Tacconi, come del resto in tutta la produzione Optical e Programmata, il secondo, essenziale elemento è la luce. Ancora niente di nuovo, quindi, dal momento che la luce è oggetto di studio quasi scientifico dai tempi dell’Impressionismo e della nascita della fotografia, ma allo stesso tempo è da sempre un fattore di considerazione basilare per gli artisti di tutte le epoche.

    Nel caso di Andrea essa diventa però un elemento dirimente nella fruizione e percezione dei dipinti, strettamente connesso al movimento: come si sposta l’osservatore, così si rende necessario il movimento della fonte luminosa. Questo meccanismo è talmente pregnante, che sarebbe quasi auspicabile dotare l’osservatore di un ausilio, una torcia, ad esempio, da poter orientare sulle opere in maniera discrezionale e autonoma: un punto luce unico, sebbene magari sapientemente orientato, non è sufficiente a consentire di apprezzare ogni linea, ogni forma, ogni dettaglio, presenti in questi dipinti con una densità tale che postuliamo finita, ma aspira a un numero infinito. E’ la luce, e il suo diverso disporsi sui dipinti, che anima i riflessi e le forme, è la luce, quasi, che li crea, che dà loro l’esistenza.

    Il terzo fattore - ultimo per mere esigenze di trattatistica - che si può identificare alla base dei meccanismi visivi legati all’opera di Tacconi è il tempo. Si tratta quasi di un’ovvietà, ma sarà bene precisare che, oltre al tempo fisico necessario per effettuare i dovuti spostamenti (dell’osservatore o della luce), esiste un tempo per così dire percettivo e, successivamente, cognitivo, richiesto qui in gran quantità per poter cogliere le sfumature, a volte minimali, le trame, i riflessi, i dettagli che affollano ordinatamente questi dipinti.

    A ogni elemento corrisponde un tempo di attenzione, esaurito il quale si passa all’elemento successivo, in una stratificazione che disvela progressivamente nuovi livelli.

    Sarà interessante notare come, nonostante la complessa varietà di colori, forme e dettagli dei lavori di Tacconi, soprattutto per quanto riguarda le opere su carta, ciò che decisamente non si genera mai è confusione. Metodo e rigore assoluti guidano Andrea nella realizzazione dei suoi disciplinati dipinti, dove tutto ha un proprio posto, segue un proprio ordine, perché, come sosteneva Paul Valéry: “La più grande libertà nasce dal più grande rigore”.


    Dalla percezione alla cognizione: il quadrato semiotico

    Movimento, luce e tempo sono dunque i fattori che permettono la fruizione, fisica innanzitutto, delle opere di Tacconi, e, quindi consentono il passaggio da una visione frontale, unica, ai molteplici punti di vista.

    Ciò che si vede, poi, sulla base di questi meccanismi, è tutto ciò che è presente nell’opera. In questi lavori, infatti, non c’è mai un vero e proprio momento illusorio: Tacconi non mente mai, al massimo nasconde o costringe a una visione successiva, più attenta.

    Nella transizione dal (quasi) uniformemente bianco o nero nelle loro forme basiche del cerchio e del quadrato, o del cilindro e del cubo, si attua quello che si può spiegare molto bene prendendo a prestito alcune

    strutture della semiotica. In particolare è il quadrato della veridizione di Greimas6 che ci offre una possibile lettura di quello che avviene passando dal bianco al colore, ovvero la transizione dal segreto alla verità.

    Per poter applicare tale metodologia al lavoro di Tacconi, si rende necessaria una disamina che ne suddivida la produzione: troviamo infatti le Sfaccettature, da un lato, e i cerchi e le opere su carta dall’altro.

    Nelle Sfaccettature il colore è presente, è, appunto, ma non sembra, a una visione immediata e frontale, che potrebbe quindi corrispondere, secondo lo schema presentato, al momento del segreto. In una fase successiva, in cui si siano già attuate le dinamiche precedentemente descritte (movimento, luce, tempo), si passa invece alla verità, ovvero il colore è e sembra, allo stesso tempo.

    Analogamente nelle opere su carta il passaggio dal segreto alla verità ha come soggetto la molteplicità di varianti, dettagli, forme infinitesimali, che sono, ma, a prima vista, non sembrano.

    Il processo percettivo, quindi, si sostanzia a questo punto del momento cognitivo: è infatti possibile individuare un’impalcatura strutturale nei dipinti che permette di dare un nome ai meccanismi della percezione visiva. Nella transizione dalla percezione alla cognizione si costruisce dunque una nuova metafora: passare dal segreto alla verità si configura come un metodo epistemologico, una prassi di fruizione delle opere che per Tacconi diventa un processo di conoscenza del mondo. Come per i suoi dipinti, infatti, l’artista sembra suggerire che per approcciare qualsiasi fenomeno terreno, ma, soprattutto, qualsiasi persona che ci capiti di incontrare, una prima (frontale e unica) impressione (o visione) non sia affatto sufficiente e non porti ad una conoscenza esaustiva.

    L’opera diventa a questo punto una vera e propria metafora epistemologica, quindi, un paradigma di conoscenza, una guida in un viaggio esplorativo del Sé e dell’Altro: Tacconi questo lo dichiara esplicitamente, quando definisce le proprie riflessioni come annotazioni di viaggio. E se nelle opere in senso stretto sarà possibile allora vedere ciò che c’è nel dipinto, là fuori, nel mondo, si potrà cogliere anche ciò che non si vede. Come? Ce lo dice Andrea: “Osservando l’invisibile”.

    1 Gli strumenti di analisi dell’osservatore, poi, determinano dirette conseguenze anche sul suo gusto. Cfr. Baxandall, Michael, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Torino, Einaudi, 2001.

    2 V. Panofsky Erwin, La prospettiva come forma simbolica, Milano, Abscondita, 2007.

    3 Si veda in proposito Gentili Augusto, La bilancia dell’arcangelo, Roma, Bulzoni, 2009.

    4 Cfr. Eco U., Opera aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, 1962.

    5 Cfr. Eco U., La forma del disordine, in Programmare l’arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche, M. Meneguzzo, E. Morteo, A. Saibene, a cura di, Milano, Johanandlevi, 2012.

    6 Greimas, A. J., Del senso (Vol.2), Bompiani, 1984.